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Cenni
storici sulla vita di San
Vittore
Vescovo
(Tratto
da: Vittore
e Savino
di Gaia
Corrao)
San
Vittore, primo vescovo
Piacenza
San
Vittore, san Savino, san
Mauro, san Folco Scotti,
il beato Paolo Burali
fino ad arrivare al beato
Giovanni Battista
Scalabrini sono i nomi di
altrettanti vescovi
piacentini che mostrano
come le origini dell'
episcopato di questa
città poggiano sulle
fondamenta della santità.
Pare anzi che a Piacenza,
la santità si sia
trasmessa come il
testimone di una
staffetta che non è mai
venuta meno nelle varie
epoche.
Il
primo nome che emerge
dalle nebbie della storia
antica è, come si diceva,
quello di san Vittore,
del quale non abbiamo
tuttavia che poche e
scarne notizie. Se ne
parla come del primo
vescovo di Piacenza nel
testo dell' lnventio di
sant' Antonino, il
documento che narra del
ritrovamento delle
reliquie del martire.
Vittore,
passato alla storia
soprattutto per la
costruzione della
basilica in cui il suo
successore avrebbe poi
inumato le reliquie di
sant' Antonino, è
ricordato semplicemente
come confessore, in due
documenti dell'ottavo
secolo: il privilegio di
Ildebrando (o Ilprando)
dell'anno 744 e quello
del re Rachis, dell'anno
746. In questi documenti
si legge: "Ecclesia
beatissimi Martyris et
Confessoris Christi,
Antonimi et Victoris,
sita foris muris
civitatis Placentinae,
ubi eorum corpora
requiescunt humata".
Esiste
poi nell'archivio di sant'
Antonino un altro antico
documento membranaceo
risalente all'anno 878,
nel quale Vittore viene
ricordato come vescovo
nei seguenti termini:
"Ecclesia S.
Antonimi et Victoris,
Martyris et Confessoris
Episcopi". Queste
testimonianze scritte
suffragano quanto meno l'ipotesi
dell'esistenza di un
vescovo Vittore. Di lui
poi non si sa molto di
più. Non si sa quando
nacque, né quando morì.
Si sa soltanto che visse
in un periodo molto
difficile per la Chiesa,
lacerata dalle divisioni
tra ariani e ortodossi,
cioè cristiani fedeli
alla sana dottrina. Al
tempo di Vittore l'eresia
ariana imperversava in
tutto l'Impero, seminando
ovunque confusione, dubbi
e incertezze soprattutto
all'interno della
gerarchia ecclesiastica.
Fu
quello, come vedremo, un
tempo di scomuniche,
esili forzati, dure lotte
per l'affermazione della
dottrina ortodossa della
Chiesa. Un tempo in cui
gli Imperatori si
schieravano, senza in
verità capirne un gran
che, dall'una o dall'altra
parte, cacciando senza
tanti complimenti dalle
proprie sedi quei vescovi
che risultassero di
orientamento contrario.
Un
tempo di concili, sinodi,
incontri e scontri, che
solo grazie alla strenua
resistenza di alcuni
vescovi coraggiosi di
dottrina ortodossa,
portò alla fine al
trionfo della verità e
alla definitiva
affermazione di quel
Credo (niceno-costantinopolitano)
che ancora oggi recitiamo
nelle nostre chiese e nel
quale si ribadiscono la
divinità del Figlio e la
sua uguaglianza al Padre.
Per
quanto riguarda il nostro
Vittore, il suo nome
secondo il Campi, figura
nella lista di quelli che
nel 354 durante il
Concilio di Milano,
sottoscrissero la
condanna del vescovo
ortodosso Atanasio,
imposta, anzi estorta con
l'inganno, dall'Imperatore
Costanzo che era ariano.
Premesso che questa tesi
poggia secondo lo
studioso mons. Domenico
Ponzini su fondamenti
fragili, possiamo
azzardare una spiegazione
che non pretende tuttavia
di avere alcun valore
storico. Un eventuale
scivolone in tal senso da
parte del vescovo Vittore
non deve necessariamente
far dubitare della sua
buona fede: furono
infatti molti i vescovi
indotti con diversi
raggiri a firmare quell'ingiusta
condanna e anzi a suo
favore possiamo dire che
poco tempo dopo,
accortosi dell'inganno
per avvertimento del
grande Eusebio di
Vercelli, il buon Vittore
si ricredette e ritirò
la firma.
Del
resto, come si diceva, si
viveva in un tempo di
confusione e soprattutto
di paura, perché gli
Imperatori non esitavano
a calcare la mano nelle
condanne contro i vescovi
di orientamento diverso
dal loro.
Il
nome di un Vittore
probabilmente
identificabile con il
protovescovo piacentino
compare poi nella lettera
contenente il compendio
di quanto si definì nel
Concilio Romano II, sotto
papa Damaso, nell'anno
396, quando già era
stato eletto vescovo di
Piacenza il suo
successore Savino.
Cos'altro
abbia fatto Vittore
durante gli anni dell'
episcopato piacentino,
rimane per il momento un
mistero. A suo beneficio
sta il fatto che quando
Savino prese la guida di
Piacenza, la città aveva
già una buona
organizzazione e una
notevole fecondità
spirituale.
La
tradizione vuole che all'iniziativa
del vescovo Vittore si
debba la costruzione
della Basilica di sant'
Antonino, prima detta
vittoriana, dove a tutt'oggi
le sue spoglie mortali
riposano accanto a quelle
del martire patrono della
città. Il Campi racconta
che nella Basilica che
egli volle dedicata a San
Vittore, il vescovo di
Piacenza s'apparecchiasse
un sepolcro nel quale
avrebbe dovuto essere
tumulato dopo la morte.
Anzi la leggenda narra
anche di una sua profezia,
secondo la quale in quel
sepolcro sarebbe presto
stato sepolto qualcuno
"maggiore" di
lui. In ciò il vescovo
non andò molto lontano
dal vero, dal momento che
effettivamente il suo
successore Savino vi
trasferì il corpo del
martire Antonino e la
chiesa assunse da allora
il doppio titolo dei SS.
Vittore e Antonino.
La
leggenda tramandata dal
Campi narra ancora di un
particolare curioso che
si sarebbe verificato al
momento in cui le ossa di
sant' Antonino vennero
riposte nel sepolcro di
san Vittore. Pare che non
appena le reliquie del
martire vennero poste
vicino a quelle del
vescovo, le ossa di quest'ultimo
si siano ritirate
spontaneamente per
lasciargli il posto.
Legittimi
dubbi sorgono nel lettore
moderno riguardo a simili
insoliti avvenimenti, ma
quello che conta per noi
non è tanto se sia vero
o no che le ossa del
vescovo compirono
effettivamente questo
spontaneo atto di umiltà,
quanto sapere che alle
origini della Chiesa
piacentina si collocano
persone come Vittore, che
nonostante i tempi
difficili in cui la
Provvidenza le chiamò a
governare la città,
seppero lasciare un'impronta
di santità, che è
giunta fino ad oggi.
L'eresia
ariana
All'inizio
del IV secolo Ario,
diacono verso il 308 e
sacerdote verso il 310,
cominciò a diffondere
una dottrina nuova che
presto si rivelò
particolarmente
perniciosa e ingannevole:
solo Dio Padre è unico,
eterno, immutabile, non
generato. Come tutti gli
altri esseri invece,
anche il Figlio (il Logos
o Verbo) è stato tratto
da ciò che non esisteva
e non dalla sostanza
divina. In questo senso
il Figlio è creatura di
Dio, a Dio inferiore, e a
lui solo erroneamente
viene attribuito il
titolo di Dio. A sua
volta il Figlio è
creatore di tutti gli
altri esseri e la prima
sua creatura è lo
Spirito Santo, quindi
maggiormente inferiore a
Dio che non il Figlio. Il
Logos fu adottato da Dio
quale Figlio, senza che
da ciò ne derivasse a
lui una reale
partecipazione alla
divinità, né alcuna
sostanziale somiglianza.
Questa
dottrina che in tre
parole, con sconcertante
laconicità, liquida la
divinità di Cristo, il
ruolo dello Spirito Santo,
nonché il senso della
Trinità sulla cui
esistenza si basa tutta
la dottrina cristiana, fu
condannata una prima
volta ad Alessandria nel
320. Fu in seguito
solennemente dichiarata
eretica a Nicea nel primo
Concilio Ecumenico del
325 e Ario, il suo
ideatore, fu esiliato
nell'Illirico.
I
318 padri adunati a Nicea
redassero allora la nota
formula di fede: "Crediamo
in un solo Dio, Padre,
Signore, creatore di
tutte le cose visibili e
invisibili; e in un solo
Gesù Cristo Figlio di
Dio, unigenito, generato
dal Padre, cioè dalla
sostanza del Padre, Dio
da Dio, Luce da Luce, Dio
vero da Dio vero,
generato non fatto,
consustanziale al Padre,
per mezzo del quale tutto
è stato fatto in cielo e
in terra... e nello
Spirito Santo...".
Su questa formula di fede
(detta nicena) si basa il
nostro Credo.
Ma
la vittoria della
dottrina ortodossa sull'
eresia non fu immediata,
né semplice.
Con
raggiri e appoggi infatti,
Ario ottenne in un
secondo momento la
riabilitazione dall'Imperatore
Costantino, al quale
aveva presentato una
professione di fede
volutamente vaga. Il
vescovo ortodosso
Atanasio rifiutò di
ricevere Ario, che fu
allora aggregato al clero
di Costantinopoli,
peraltro senza potervi
mai essere ricevuto dal
momento che morì mentre
si avviava verso l'Oriente,
nel 336. L'anno
successivo morì anche
Costantino. Gli
succedette l'Imperatore
Costanzo, che si lasciò
scioccamente circonvenire
dai vecchi nemici della
fede nicena, i numerosi
seguaci di Ario, contro i
quali continuava a
battersi strenuamente il
vescovo Atanasio.
Rimasto
unico imperatore nel 350,
Costanzo indisse un primo
Concilio ad Arles, nel
quale pretese e ottenne
la condanna dell'ortodosso
Atanasio, mentre il papa
Liberio indignato per un
simile modo di procedere,
chiese all'Imperatore un
nuovo Concilio, che si
celebrò a Milano nel 354.
In quella sede, l'Imperatore,
ormai apertamente
schierato sulle posizioni
ariane, riuscì con l'inganno,
la forza e la minaccia
dell'esilio a piegare i
vescovi là raccolti,
alla condanna di Atanasio.
Solo una sparuta
minoranza tra cui Eusebio
da Vercelli, preferirono
l'esilio piuttosto che
cedere alla prepotenza
dell' Imperatore,
piegarsi all'eresia e
rinnegare la fede di
Nicea. Gli altri
sottoscrissero la
condanna di Atanasio. Il
papa Liberio, sdegnato,
scelse la via dell'esilio.
L'Imperatore
nel frattempo aveva
imposto non solo un
antipapa a Roma, ma aveva
anche arbitrariamente
nominato diversi vescovi
ariani per sostituire
quelli esiliati. A Milano,
dove la quasi totalità
della popolazione era
ortodossa, mise a capo
della Chiesa locale il
cappàdoce Aussenzio, che
non capiva una parola di
latino e aveva l'unico
merito agli occhi di
Costanzo di essere ariano.
La
dura lotta tra ariani e
ortodossi andò avanti
ancora per diverso tempo
e, grazie all' appoggio
imperiale, l'eresia di
Ario poté diffondersi
facilmente confondendo
gli animi e allontanando
molti dalla sana dottrina.
La fede nicena fu così
proscritta e i vescovi
ortodossi esiliati, con
uno spettacolo doloroso
per la Chiesa in Oriente
e in Occidente. Era l'oscuro
trionfo dell'arianesimo.
Ma non sarebbe durato per
sempre.
Quando
nel 361 il vescovo
esiliato Atanasio poté
finalmente fare ritorno a
Milano, adunò nella sua
sede un grande concilio
dogmatico-disciplinare,
nel quale la formula di
fede di Nicea doveva
essere accettata da tutti
quelli che intendevano
essere ortodossi. La
dottrina ortodossa
cominciava a riaffermarsi
su quella eretica, anche
se gli ariani avevano
ancora molti sostenitori
sia in Oriente che in
Occidente.
È
in questo quadro di duro
scontro tra la Verità e
la menzogna che viene ad
inserirsi la figura del
secondo vescovo di
Piacenza: il grande
Savino.
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